Una telecamera accesa riprende tutto quello che succede sopra il lavandino: ebree, arabe e cristiane si fanno fare lo shampoo una dopo l’altra. Benvenuti da Fifi, una parrucchiera per donne a Caifa, in Israele.

Mentre la regista insapona ogni ciocca di capelli, le clienti si abbandonano alle sue mani delicate e si lasciano intervistare. Il salone di Fifi vi farà scivolare in un’intima “bolla di sapone”, dove potrete aprire il vostro cuore senza timore.

Ma fate attenzione: qui non c’è spazio per la violenza e la politica.

Diretto da Iris Zaki
Montaggio: Tal Cucirel
Musica: Souad Zaki
Ringraziamenti: Jodie Clifford
Traduzione: Denise Cristallo, Leonardo Boffini, Emanuela Mahmudi, Alessandra Silvesteri (ZHAW), Aurora Marchetti

Intervista

Iris Zaki | 99.media

Iris Zaki
Regista

“Le clienti sono molto legate al salone,
rappresenta il centro della loro vita sociale.
È come se fosse una stazione degli autobus!”
  • Parlaci di te, Iris.


Sono un’ebrea cresciuta a Haifa, in Israele. Non avrei mai pensato di realizzare film. Non era mia intenzione; non era il percorso che avevo pianificato di intraprendere.


Ho studiato media e comunicazione, ho lavorato un po’ per MTV e canali musicali, e poi ad un certo punto, ho lasciato Tel Aviv – avevo circa 31 anni, credo – per andare a Londra. Lì ho iniziato a studiare cinematografia.


Per il mio dottorato a Londra, ho realizzato un film dal titolo My Kosher Shifts in un hotel ebraico in cui ho lavorato come receptionist. Il film mostra le conversazioni che ho avuto con gli ospiti. Non volevo portare nessuna troupe, o stare io stessa dietro la telecamera, perciò ho posizionato una telecamera su un treppiede e mi sono messa a fare la receptionist. Questo è iniziato a essere il mio proprio stile di intervista, che successivamente ho denominato “la telecamera abbandonata”. Fu allora che capii che questo era ciò che volevo fare nella vita. 


E infatti è proprio questo ciò di cui mi sono occupata da allora fino ad adesso: guardo i miei film come se fossero viaggi per imparare di più riguardo a me stessa. Non trovo mai un soggetto interessante e non dico “ok, farò un film su di esso e lo girerò mentre intervisto persone”. No. C’è sempre qualcosa che voglio esplorare a fondo, e che mi coinvolge.

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  • Il tuo secondo film, “Il salone de Fifi”, segue la stessa linea del primo: la telecamera viene posizionata, tu lavori come dipendente e intervisti persone…

     

Per il mio dottorato, volevo approfondire questa tecnica documentaristica, quindi l’idea di base per il mio secondo film fu praticamente vedere come avrebbe funzionato in un ambiente diverso, in un posto diverso.


Volevo, come sempre, trovare un lavoro da qualche parte, perché sono dell’idea che lavorando come dipendente in un posto di lavoro, si ricopra di conseguenza una vera funzione: non stai solo facendo un film. L’obiettivo principale è quello di fornire un servizio, e intanto il dialogo fiorisce, quello organico, che scaturisce da incontri casuali, senza la necessità di prepararsi delle domande.

  • Quindi, come è giunto questo progetto da Fifi?


Decisi di girare il mio secondo film ad Haifa, la mia città natale, e volevo esplorare la comunità araba, perché non avevo mai avuto alcun tipo di legame con loro.


Non volevo un hotel con una reception. Stavo cercando un’attività differente, con una connessione fisica; allora ho pensato ad un salone di parrucchiere e a fare la shampista. Mi sono detta: “È un’idea fantastica, nessuno l’ha mai fatto prima, ma… come diavolo farò?”.


Ho fatto un piccolo tour nel quartiere di Wadi Nisnas e qualcuno mi ha parlato del salone di parrucchiere di Fifi: il giorno dopo sono andata lì. Ero molto timida, mi sono scusata a lungo per stare sempre di fronte ai loro volti, ma erano molto gentili e aperte all’idea.


Questo posto era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Era molto caldo, molto accogliente, e davvero “trafficato”. Molte donne ci vanno da anni, si fidano davvero delle parrucchiere. Le clienti sono molto legate al salone, rappresenta il centro della loro vita sociale. È come se fosse una stazione degli autobus!

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  • Parlaci della parte tecnica del film. Immagino che le clienti fossero intimidite dalla presenza di una telecamera fissa sopra alle loro teste…

     

Inizialmente avevo pensato di utilizzare un treppiede, ma non ha funzionato. Ho poi fissato la telecamera ogni mattina su un impianto sopra il lavandino.


Ho detto alle clienti che mi serviva solo per l’università, magari per festival. Non ho cercato di convincerle a essere riprese. Semmai, è stato il contrario! Dicevo sempre: “Non devi”, ma le parrucchiere erano cariche, e dicevano a tutte: “Ascolta, questa ragazza è così dolce, sta facendo un dottorato, dovremmo aiutarla”.


E dato che le parrucchiere erano davvero una famiglia per tutte, hanno trattato anche me come tale. Non sospettavano di me; al contrario, si fidavano di me.

“Togliendo alcuni strati in superficie,
si riesca a vedere che le persone
vogliono solo vivere la propria vita.”
  • Quindi, dopo aver lavorato come receptionist in un hotel, hai imparato a fare la shampista?

     

È stata una sfida, perché quando ho iniziato ero molto preoccupata! È molto difficile farlo bene: l’acqua è troppo fredda o è troppo calda? Non nelle orecchie. Non negli occhi. Devi stare abbastanza ferma per fare lo shampoo in modo efficace, ma non troppo ferma. E c’è sempre una fila di persone in attesa, quindi è anche molto stressante!


Ma alla fine, tutto ha funzionato, perché sei occupata in una certa azione, in qualcosa che concretamente fai. Parlare non è il nostro obiettivo primario, quindi le parole scorrono più facilmente; io sono impegnata in qualcosa e loro anche.

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  • Il salone Fifi sembra un’isola felice, un luogo in cui le tribolazioni politiche vengono lasciate appese all’appendiabiti…

     

In questo salone nessuno parla di politica. Parlano di tutto tranne che di politica. Parlano di diete, vacanze, problemi con gli uomini, dei loro figli, di tutto, ma non di politica. È un problema che tutti possono vedere ma di cui nessuno vuole parlare, perché lì separa le comunità. Ero frustrata perché volevo mostrare la tensione, ma alla fine ho mostrato il significato sottinteso.


Ho permesso al tema politica di insinuarsi nel salone. Per esempio, una cliente mi chiese “così, perchè stai girando un film qui?”. Ho risposto “sono ebrea, sono cresciuta qui, questo è un salone arabo e non ho mai incontrato nessun arabo” (perché, in Israele, non si incontrano arabi), e questa è già una dichiarazione politica.


Ma non ho mai detto nulla del tipo “ok, oggi parliamo dell’occupazione!”. Le cose sono nate in modo organico. È stato anche il mio carattere a influenzare tutto questo; sono molto schietta, sfacciata. Non mi trattengo, quindi ho sollevato argomenti difficili, ma sono convinta che li avrei sollevati anche senza una telecamera.

  • Il tuo documentario è stato proiettato in decine di festival del cinema internazionali e ha ricevuto diversi premi. Tratta una situazione locale mantenendo un messaggio universale.

     

Questo “piccolo” film avrebbe potuto essere girato ovunque. È universale perché parla di una comunità composta da differenze, ma pur sempre una comunità di connessioni. È un esempio di come, all’interno di una realtà molto inquietante, togliendo alcuni strati in superficie, si riesca a vedere che le persone vogliono solo vivere la propria vita.


In tutto il mondo, molte persone sono interessate a quello che succede in Israele. In un certo senso, pensano di sapere cosa sta succedendo qui, ma è come se fosse un grande quadro; solo quando ci si avvicina si vedono i dettagli.


La situazione in Israele è problematica, c’è un’occupazione in corso, una realtà molto triste e tragica per gli arabi, ma penso che rivelando strati di connessione molto più delicati e sottili tra le persone, possiamo effettivamente contribuire a una migliore comprensione della situazione.

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  • Quali sono i tuoi piani ora?

     

Il mio nuovo progetto si chiama “Egitto, una canzone d’amore“. Parla della storia d’amore dei miei nonni.


Mia nonna era una famosa cantante ebraica araba dell’Egitto. Ha sposato un musicista musulmano con il quale ha avuto un figlio, mio padre. Riguarda la mia identità – in modo molto diretto questa volta – l’essere per un quarto araba musulmana.


Ho finito per usare la tecnica della “telecamera abbandonata”, e questa volta siamo solo io e mio padre a parlare. Ovviamente, con me c’è anche una crew, ma hanno installato tutto prima che noi due da soli parlassimo, e registrato quindi tutto da remoto. Le telecamere sono fisse, nessuno tocca i treppiedi, nessuno zooma, tutto è posizionato. Non stanno lavorando intorno a noi, questo ci permette di avere privacy, intimità – per quanto si possa davanti a una telecamera accesa – ma psicologicamente, è davvero diverso non vedere persone in piedi che ti fissano.

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  • Una parola per 99 e per il sottotitolaggio del tuo film in più lingue, specialmente nella nostra ultima: l’arabo?

     

Mi piace! Perché, alla fine, credo che la lingua sia una barriera. E per le persone per le quali l’inglese non è la prima lingua – anche se lo capiscono – leggere i sottotitoli in inglese li tiene lontani da quello che stanno guardando. In breve, quando leggi le cose nella tua lingua, la tua mente e il tuo cuore sono più ricettivi al contenuto.


Questo è un film che voglio davvero che la gente dei paesi arabi guardi. Ricevo molti messaggi sui social media – da persone provenienti da paesi arabi e anche da palestinesi – che dicono quanto hanno imparato dal mio film e quanto sia importante.


La lingua è qualcosa che collega realmente. In quanto ebrea, vorrei aver imparato l’arabo e l’arabo parlato. Sentire che il mio film verrà tradotto in arabo mi scalda davvero il cuore.

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