Una telecamera accesa riprende tutto quello che succede sopra il lavandino: ebree, arabe e cristiane si fanno fare lo shampoo una dopo l’altra. Benvenuti da Fifi, una parrucchiera per donne a Caifa, in Israele.
Mentre la regista insapona ogni ciocca di capelli, le clienti si abbandonano alle sue mani delicate e si lasciano intervistare. Il salone di Fifi vi farà scivolare in un’intima “bolla di sapone”, dove potrete aprire il vostro cuore senza timore.
Ma fate attenzione: qui non c’è spazio per la violenza e la politica.
Intervista

Iris Zaki
Regista
“Le clienti sono molto legate al salone,
rappresenta il centro della loro vita sociale.
È come se fosse una stazione degli autobus!”
- Parlaci di te, Iris.
Sono un’ebrea cresciuta a Haifa, in Israele. Non avrei mai pensato di realizzare film. Non era mia intenzione; non era il percorso che avevo pianificato di intraprendere.
Ho studiato media e comunicazione, ho lavorato un po’ per MTV e canali musicali, e poi ad un certo punto, ho lasciato Tel Aviv – avevo circa 31 anni, credo – per andare a Londra. Lì ho iniziato a studiare cinematografia.
Per il mio dottorato a Londra, ho realizzato un film dal titolo My Kosher Shifts in un hotel ebraico in cui ho lavorato come receptionist. Il film mostra le conversazioni che ho avuto con gli ospiti. Non volevo portare nessuna troupe, o stare io stessa dietro la telecamera, perciò ho posizionato una telecamera su un treppiede e mi sono messa a fare la receptionist. Questo è iniziato a essere il mio proprio stile di intervista, che successivamente ho denominato “la telecamera abbandonata”. Fu allora che capii che questo era ciò che volevo fare nella vita.
E infatti è proprio questo ciò di cui mi sono occupata da allora fino ad adesso: guardo i miei film come se fossero viaggi per imparare di più riguardo a me stessa. Non trovo mai un soggetto interessante e non dico “ok, farò un film su di esso e lo girerò mentre intervisto persone”. No. C’è sempre qualcosa che voglio esplorare a fondo, e che mi coinvolge.

-
Il tuo secondo film, “Il salone de Fifi”, segue la stessa linea del primo: la telecamera viene posizionata, tu lavori come dipendente e intervisti persone…
Per il mio dottorato, volevo approfondire questa tecnica documentaristica, quindi l’idea di base per il mio secondo film fu praticamente vedere come avrebbe funzionato in un ambiente diverso, in un posto diverso.
Volevo, come sempre, trovare un lavoro da qualche parte, perché sono dell’idea che lavorando come dipendente in un posto di lavoro, si ricopra di conseguenza una vera funzione: non stai solo facendo un film. L’obiettivo principale è quello di fornire un servizio, e intanto il dialogo fiorisce, quello organico, che scaturisce da incontri casuali, senza la necessità di prepararsi delle domande.
-
Quindi, come è giunto questo progetto da Fifi?
Decisi di girare il mio secondo film ad Haifa, la mia città natale, e volevo esplorare la comunità araba, perché non avevo mai avuto alcun tipo di legame con loro.
Non volevo un hotel con una reception. Stavo cercando un’attività differente, con una connessione fisica; allora ho pensato ad un salone di parrucchiere e a fare la shampista. Mi sono detta: “È un’idea fantastica, nessuno l’ha mai fatto prima, ma… come diavolo farò?”.
Ho fatto un piccolo tour nel quartiere di Wadi Nisnas e qualcuno mi ha parlato del salone di parrucchiere di Fifi: il giorno dopo sono andata lì. Ero molto timida, mi sono scusata a lungo per stare sempre di fronte ai loro volti, ma erano molto gentili e aperte all’idea.
Questo posto era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Era molto caldo, molto accogliente, e davvero “trafficato”. Molte donne ci vanno da anni, si fidano davvero delle parrucchiere. Le clienti sono molto legate al salone, rappresenta il centro della loro vita sociale. È come se fosse una stazione degli autobus!